Giacomo Merchi
Chamber music
with violin and guitar
first world recording
Il saggio completo è contenuto nell'introduzione all'edizione dei Duetti a chitarra e violino curata per DaVinci.
Domenico e Francesco Colla/Cola (Brescia 1720 ca., morti dopo il 1780) furono importati strumentisti. Poche notizie si hanno di questi due fratelli, ma la loro attività lascia intendere che lo strumento fosse ben noto in Brescia già dal 1600. Anche il bresciano Pietro Fioletti praticava il colascioncino nel 1764. Allo stesso periodo appartengono le composizioni originali per colascione, manoscritte o stampate del Brescianello, di Placidus von Camerlohe, del duca Clemente di Baviera; opere di G. Ph. Telemann e J .P. Schiffelholz prevedono l'uso del colascione solo come strumento solista, sia nelle combinazioni duo o in trio, sia in appoggio o in alternativa al basso degli archi in compagini miste. Il colascione figura anche nelle opere buffe del Settecento, spesso accanto alla zampogna, al mandolino e al salterio. Nell’accezione popolaresca si trova anche nell'Osteria di Marechiano di Paisiello (1760) e nella Molinara del medesimo autore (1798, già rappresentata come L'amor contrastato dieci anni prima). Come corredo alle Serenate è richiesto anche nelle scene buffe inserite nel melodramma La caduta dei decemviri di A. Scarlatti (1697). Addirittura al 1535 potrebbe risalire il colascione di Antonio Baraptutio, ora a Napoli. Un altro importante strumento conservato fu di Valentino Bonometti “alla Palada in Brescia fece l'anno 1765". E’ possibile che Domenico Colla fosse costruttore del suo strumento oltre che virtuoso, erede di una tradizione che vede un colascione del 1622, conservato nella raccolta di Grosby Brow nel Metropolitan Museum di New York, una Costa di Agostino, pure bresciano. Nel collegio di S. Antonio Viennese, aperto in Brescia dal 1573 al 1773, era previsto, fra le materie facoltative, lo studio del colascioncino. L'apprendimento della tecnica era assicurato, intorno alla metà del XVII secolo, dalla presenza nella scuola di Pietro Fioretti, maestro bresciano di strumenti a pizzico fino al 1764. Ma la diffusione dello strumento aveva anche a Brescia molti altri canali e le corde del colascione erano accarezzate in più occasioni anche nei luoghi e nei momenti meno opportuni: è del 1691 la relazione di don Stefano Bonetti, curato della chiesa di S. Giacomo Maggiore di Carcina, nella quale il reverendo chiede a monsignor Gradenigo che venga stabilita una pena pecuniaria "a quelli che suonano i valesoni in tempo di notte vicino a questa Chiesa Parrocchiale e ivi cantano le hore intiere ad alta voce le canzoni alle Putte...". L'uso indiscriminato e volgarizzato ha generato l’espressione dialettale "vöt come 'n calisù", che indica un uomo vuoto e privo di ideali.
Negli stessi anni di attività dei Colli anche i fratelli Bernardo Giuseppe e Giacomo Merchi si fecere onore per alcuni concerti in teatri francesi, suonando il mandolino e altri strumenti a pizzico. Al 1751 risale l’annuncio di un loro concerto a Reims, in cui tennero il 25 maggio un’esibizioneo con liuti, colascioncini, tiorbe e mandolini.
Giacomo Merchi (talvolta Merchy, Melchy, Merci) pubblicò i propri rivoluzionari metodi a Londra e Parigi, dove ebbe una profonda influenza sullo sviluppo della tecnica nei decenni seguenti. Fétis sostiene che nel 1789 un Merchi fosse ancora attivo a Parigi, così come tutte le biografie ottocentesche (Laborde, Choron, Schmidl). Bernardo Giuseppe (Brescia, 28 novembre 1723 - Parigi, 22 maggio 1793) e Giacomo Merchi (Brescia, 18 agosto 1726 - Parigi, 1800 ca.) erano appartenenti a una storica famiglia di musicisti. Le molte opere pubblicate dai due fratelli costituiscono la cartina tornasole dei cambiamenti che stavano segnando la storia della chitarra: a titolo esemplificativo nell’Op.VII viene insegnata l’accordatura per la chitarra ancora con corde raddoppiate, mentre nell’Op.XXXV si passa già a trattare l’accordatura per sei corde semplici, definite più pratiche da trovare, da accordare e da pizzicare. Nell’Op.VII i Merchi avevano già bandito l’utilizzo della intavolatura sostenendo che generasse accompagnamenti di routine e senza misura. Evidentemente l’autore (probabilmente Giacomo) cambiò parere se una quindicina di anni dopo dedicò agli abbellimenti un intero trattato: la differenza non è irrilevante, perché segna il passaggio dalla pratica antica dell’apprendimento musicale a bottega al metodo e agli esercizi studiati in autonomia dall’allievo, con l’eventuale semplice controllo del maestro.
Sussistono altre differenze tra i due trattati: sostituiti i cinque cori con sei corde semplici cambia il modo di pizzicare, in base a principî che resteranno a fondamento della pratica chitarristica fino a metà Ottocento almeno. Nel Traité des agrémens viene proposta la posizione della mano destra con l’anulare appoggiato alla tavola e il mignolo alzato. Il metodo si dilunga inoltre sulla postura, sulla posizione dello strumento, sostiene di non tenere il gomito destro alzato per non stancare l’esecutore e mortificarne l’agilità, oltre a non pizzicare le corde con le unghie perché emettono un suono secco e sgraziato. Spiega inoltre come ottenere il vibrato con la mano sinistra. Importante è anche la definizione della posizione del pollice destro, destinato a pizzicare le tre corde gravi per un migliore effetto, mentre indice e medio sono destinati ai duecantini. L’apertura del trattato alle novità tecniche è rimarcata anche dal Mercure de France che, nel 1770, descriveva il signor «Melchy» come un sostenitore di un nuovo metodo di accordare e disporre i tasti dello strumento, inventato da Nicolas Gosset, liutaio di Reims. Non mancano nel metodo di Merchi indicazioni didattiche ed estetiche significative: le note fondamentali degli accordi sono stampate in diverso carattere, in modo che si possa cogliere a colpo d’occhio la natura dell’accordo stesso. Si raccomanda inoltre di non esagerare nelle variazioni quando si accompagna la voce: in sintonia con J.J. Rousseau si sostiene che l’accompagnatore debba pensare a valorizzare la voce e non ad attirare su di sé l’attenzione. L’interesse per Rousseau, d’altra parte, è dimostrato da alcune sue melodie incluse nell’Op.XXXVI: i Merchi aderiscono all’illuminismo e ai canoni galanti di semplicità negli accompagnamenti e di gusto per la melodia chiara, aggraziata da semplici abbellimenti. I Merchi contribuiscono così a fornire ai chitarristi un repertorio di miglior qualità: nei Duetti per chitarre entrambi gli strumenti hanno pari importanza. Anche dal punto di vista pedagogico i Merchi si dimostrano interessati più alla musica d’insieme che «a solo». Lo stile cambia nel corso delle diverse opere: nell’Op.III (probabilmente di Giacomo), del 1755-60 circa, generalmente la prima chitarra espone il tema e la seconda lo riprende alla terza inferiore, con la dinamica indicata raramente. L’Op.XII presenta invece maggior ricchezza ritmica: l’autore riprende alcuni pezzi dell’Op.III e li adatta per chitarra e violino (con sordino per bilanciare meglio le sonorità dei due strumenti). In quest’opera Merchi rivela maggior maturità nello stile concertante, con grande ricchezza di sfumature, articolazioni e ornamenti, sempre preoccupato di far progredire il linguaggio musicale con nuove soluzioni tecniche tese a padroneggiare ricche possibilità espressive.
Anche l’attribuzione delle opere dei fratelli non è chiara: alcune sono firmate da Giacomo (Op.III e Op.IV), ma la gran parte genericamente «Mr. Merchi». Molte di queste sono attribuite da Cotte e Libbert a Giuseppe Bernardo, mentre da F. Lesure e RISM a Giacomo. Uno dei due fratelli potrebbe essersi trasferito a Londra: alcune opere sono, infatti, edite nella capitale inglese, genericamente firmate «M. Merchi». La prima notizia riguardo ai Merchi risale al 1751, quando i fratelli si esibirono a Rennes in un concerto per tiorba, liuto, mandolino, colascione e si affermarono come virtuosi di questi strumenti. L’annuncio del concerto (25 maggio) li definisce veneziani, musicisti da camera di sua maestà il re di Sardegna e segnala che i due fratelli rivendicano l’invenzione di un «calasoncino» a due corde. Nel 1752 i Merchi erano a Francoforte sul Meno; il 22 gennaio 1753 ai Concert spirituel di Parigi in un concerto per 2 colascioni. A Parigi i Merchi fecero della chitarra il loro strumento prediletto e vissero insegnandone la tecnica e le composizioni. Un privilège générale consentì ai Merchi di pubblicare la propria musica vocale e strumentale: ogni anno, dal 1760 al 1780, furono editi uno o due libri per chitarra. La loro attività è dunque testimoniata da oltre trenta volumi, per la maggior parte composti di arie celebri accompagnate da chitarra, duetti, danze, variazioni; scrissero anche opere vocali in francese. Significativi sono i due metodi didattici e teorici, non attribuibili con certezza all’uno piuttosto che all’altro fratello, su cui i Merchi fondarono la moderna didattica della chitarra: si tratta dei già citati Guide des écoliers de guitarre, oeuvre VIIe (Parigi, 1761) e del Traité des agrémens de la musique exécutés sur la guitarre, oeuvre XXXVe (Parigi, 1777). Le due pubblicazioni illustrano chiaramente i tratti dell’esecuzione chitarristica classica ai suoi esordi: i Merchi furono, infatti, protagonisti della profonda trasformazione di questo strumento nella seconda metà del Settecento. Venezia, tradizionalmente legata all’editoria e alla drammaturgia, ha esportato diverse personalità artistiche di prim’ordine, come Goldoni a Parigi, il Canaletto e i Merchi. La loro produzione (sonate, duetti, trii, divertimenti per strumenti a corda, opere vocali e ariette) si inserisce perfettamente nel contesto parigino prerivoluzionario, in seno a una sempre maggior pluralità di generi praticabili e di una crescente assimilazione della musica proveniente dal Nord Italia. La Raccolta d’ariette francesci ed jtaliane, pubblicata ne 1760, lo stesso anno delle Ariette ed vaudevilles nouveax, per voce e chitarra, è la testimonianaza del favore che il genere incontrava a Parigi in quegli anni. Tematica centrale è quella amorosa galante, e l’adorazione della figura femminile idealizzata. Alcuni titoli esemplificativi sono: Se vi dicessi che son amante, Che bel visetto che gha Ninetta, L’amour m’à fait la peinture de Daphné. Si tratta di brani tecnicamente abbordabili, intrisi di un sentimentalismo sofferto e vagamente impegnato, in cui vengono toccati con leggerezza i luoghi comuni tipici della tirannia dell’amore, espressione di una melliflua sensualità garbata e salottiera. La retorica affettiva della perfetta borghesia cela una sottile ironia riguardo a baci rubati, parole non dette, riflessioni sul piacere e innocenti peccatucci in un rapporto dialettico tra attrazione e ricerca della verità.
Il saggio completo è contenuto nell'introduzione all'edizione
Duetti a chitarra e violino curata per DaVinci.